La malattia di Alzheimer E LE ALTRE FORME DI DEMENZA

La malattia di Alzheimer (dallo psichiatra e neuropatologo tedesco Alois Alzheimer che la descrisse nel 1906) è una demenza (deficit cognitivo globale a decorso cronico progressivo) con esordio prevalentemente senile, ma anche più precoce (presenile).

La malattia di Alzheimer non esaurisce tutte le forme di demenza, ma ne rappresenta la tipologia più comune (almeno il 60%). Nel 10% dei casi la demenza è dovuta a lesioni cerebrali multiple (da ictus ischemico): si tratta della demenza vascolare (multinfartuale); nel 10% dei casi la demenza è dovuta alla contemporanea presenza di malattia di Alzheimer e di infarti cerebrali: questa condizione si indica con il termine di demenza mista. Vi sono poi altre malattie degenerative cerebrali che possono causare demenza, quali la malattia di Pick, le demenze fronto-temporali, la malattia a corpi di Lewy, la degenerazione cortico-basale. Si tratta di condizioni la cui frequenza esatta è poco nota (complessivamente probabilmente costituiscono circa il 15-20% delle demenze), con caratteristiche cliniche e neuropatologiche distintive. Una certa percentuale di persone presenta una demenza cosiddetta “secondaria”, in quanto – a differenza delle precedenti, cosiddette forme “primarie” – causata da malattie suscettibili di remissione o da situazioni carenziali risolvibili se adeguatamente curate (tra le altre, malattie endocrine, farmaci, idrocefalo normoteso, deficit di folati/vitamina B12).

Dal punto di vista anatomopatologico, in caso di malattia di Alzheimer si osserva a livello macroscopico una diminuzione nel peso e nel volume del cervello, dovuta ad atrofia corticale, con un allargamento dei solchi e corrispondente appiattimento delle circonvoluzioni (o giri); a livello microscopico una perdita di cellule nervose nelle aree cerebrali vitali per la memoria e per altre funzioni cognitive, riscontrandosi, inoltre, un basso livello di quelle sostanze chimiche (come l’acetilcolina) che sono coinvolte come neurotrasmettitori nella comunicazione tra le cellule nervose.

Le cause della malattia di Alzheimer non sono ancora ben comprese. Un alterato metabolismo di una proteina, detta proteina precursore della beta amiloide, porta alla formazione di una sostanza neurotossica (la beta amiloide, appunto) che si accumula progressivamente nel cervello determinando la morte neuronale: la malattia è infatti associata a placche amiloidi ed ammassi neurofibrillari cerebrali.

Nella stragrande maggioranza dei casi la malattia è sporadica (non ereditaria, tranne che In un 5% dei casi): si ritiene che fattori ambientali interagiscano con una predisposizione genetica, determinando la malattia.

Si stima che soffrano di malattia di Alzheimer quasi 600.000 persone in Italia (con una prevalenza femminile, per la maggiore longevità delle donne). Il 5% della popolazione al di sopra dei 65 anni corre Il rischio di ammalarsi, ed il rischio aumenta con l’età: si stima che circa il 20% della popolazione ultra ottantacinquenne ne sia affetta.

Nel 2006 vi erano 26,6 milioni di malati in tutto il mondo: la sua ampia e crescente diffusione nella popolazione (a causa della non risolutiva efficacia delle terapie disponibili, nonché delle enormi risorse emotive, organizzative ed economiche necessarie) la rende una delle malattie di più grave impatto sociale.

SINTOMI
Le caratteristiche cliniche della malattia possono variare notevolmente da soggetto a soggetto: tuttavia, il più precoce ed evidente sintomo è una perdita significativa della memoria, che si manifesta con la difficoltà nel ricordare eventi recenti e con l’incapacità di acquisirne di nuovi, e che successivamente si aggrava con lacune in ambiti sempre più estesi. Spesso, a questo primo sintomo (amnesia), si associano la difficoltà di eseguire attività quotidiane, la perdita della corretta espressione verbale di vocaboli e concetti, o altri disturbi del linguaggio con un impoverimento verbale complessivo ed il ricorso riflesso a ripetizioni e a stereotipi (dall’anomia all’afasia vera e propria). Altre volte il sintomo che si associa al disturbo di memoria può essere rappresentato dal disorientamento spaziale, temporale e verso le persone. Frequenti sono anche alterazioni della personalità: l’ansia, l’apatia, l’insicurezza, il disinteresse nei confronti del proprio lavoro, delle attività quotidiane e dei propri hobby, la diffidenza nei confronti di altre persone, anche familiari (accusate ad esempio di sottrarre o spostare oggetti), l’incapacità di giudizio. O ancora vi possono essere disturbi del sonno o dell’alimentazione, o del movimento. Il malato può trovarsi nell’incapacità di affrontare e risolvere problemi anche semplici, relativi alla quotidianità. Comuni ad esempio sono alcune aprassie, come incontrare difficoltà nel processo di vestirsi o di lavarsi; oppure alcune agnosie come quella di non riconoscere/confondere un oggetto con un altro.

Nella grande maggioranza dei casi, dopo anche oltre un anno dall’esordio della malattia, il disturbo della memoria è tale che i familiari ricorrono all’aiuto di uno specialista, perché la sintomatologia iniziale, attribuita allo stress oppure alla depressione o all’invecchiamento fisiologico, diventa più grave e invalidante. Il soggetto deve essere sorvegliato, benché possa mantenere ambiti, variamente rilevanti, di autonomia. La durata media della malattia di Alzheimer (così come per delle altre forme di demenza) varia fortemente da caso a caso: si stima il suo decorso tra i 7 e i 14 anni. Così la progressione non procede in maniera uniforme: può, in seguito alle terapie, interrompersi per un certo periodo (con miglioramenti anche significativi nella sintomatologia) e poi riprendere. Il ritmo di evoluzione delle demenze varia molto da soggetto a soggetto. Con l’avanzare della malattia, il quadro clinico può prevedere confusione, irritabilità, aggressività, sbalzi repentini di umore, difficoltà significative nel linguaggio, disinibizione sessuale, perdita della memoria a lungo termine, progressive disfunzioni sensoriali. Le fasi avanzate della malattia sono caratterizzate da una completa dipendenza dagli altri. Vi è difficoltà nel camminare, rigidità degli arti; incontinenza urinaria e fecale; le funzioni intellettive sono gravemente compromesse: le espressioni verbali sono ridotte alla ripetizione compulsiva di parole o suoni o gemiti. Spesso il malato si riduce all’immobilità, e la continua costrizione al letto può fare insorgere piaghe da decubito, infezioni respiratorie, urinarie, sistemiche, oltre che contratture muscolari.

DIAGNOSI
L’unico modo di fare una diagnosi “certa” di malattia di Alzheimer è a tutt’oggi attraverso l’identificazione delle placche amiloidi nel tessuto cerebrale, possibile solo con l’autopsia e quindi post mortem. Questo significa che durante il decorso della malattia si può fare solo una diagnosi di malattia di Alzheimer clinicamente “definita”, “probabile” o “possibile”.

Per questo i medici si avvalgono di diversi strumenti:
visita neurologica, test neuropsicologici, esami neuroeidologici (Tomografia computerizzata (TC) cerebrale e/o Risonanza magnetica nucleare (RMN) encefalica), valutazioni psicofisiologiche (potenziali evocati cognitivi, come la P300), esami bioumorali (del sangue, delle urine e/o del liquor).

Questi esami permettono di confermare la presenza di demenza, individuandone alcune cause rimovibili (ad es. endocrine o carenziali) ed escludendo altre malattie in grado di produrre sintomi analoghi (ad es. neoplasie cerebrali).

Come in altre malattie neurodegenerative, la diagnosi precoce è importante sia perché offre la possibilità di trattare alcuni sintomi della malattia e di ritardarne lo sviluppo, sia perché permette al paziente di pianificare il suo futuro, quando ancora è in grado di prendere decisioni. E’ oggi possibile riconoscere quando un cervello sta accumulando beta amiloide e porre diagnosi di malattia di Alzheimer quando il disturbo di memoria è ancora lievissimo e non disabilitante: sono necessari esami sofisticati quali la RMN ad alta definizione, la Tomografia ad emissione di positroni (PET) ed il dosaggio liquorale di beta amiloide e proteina tau. La diagnosi precoce è inoltre condizione per intraprendere interventi farmacologici con farmaci attivi sull’acetilcolina volti a mantenere integre le funzioni cognitive per un periodo di tempo superiore, per ritardare l’esordio della disabilità.

TERAPIE MEDICO CHIRURGICHE
Purtroppo non esistono ad oggi farmaci in grado di bloccare la malattia, facendone regredire i sintomi/segni: tutti i trattamenti disponibili puntano a ritardare la comparsa dei sintomi ed il loro aggravamento; a contenere i sintomi e renderli gestibili, compatibili con una soddisfacente qualità di vita. Per alcuni soggetti, nei quali la malattia è ad uno stadio lieve o moderato, farmaci come donepezil, rivastigmina e galantamina possono aiutare a limitare il peggioramento sintomatico per alcuni mesi. Questi principi attivi funzionano come inibitori dell’acetilcolinesterasi, un enzima che distrugge l’acetilcolina, il neurotrasmettitore carente nel cervello dei malati di Alzheimer. Di recente è stata introdotta in terapia la memantina, un antagonista glutamatergico in grado di ridurre la stimolazione dei recettori neuronali da parte di sostanze (come il glutammato ed altri aminoacidi eccitotossici) che producono morte neuronale facendo aumentare le concentrazioni intracellulari di calcio.

Altri farmaci sintomatici possono aiutare a contenere i problemi di insonnia, di ansia e di depressione.
L’elaborazione di nuovi farmaci per la malattia di Alzheimer è oggi un campo di grande interesse e fermento. Nei laboratori di ricerca si sta lavorando a principi attivi che aiutino a rallentare la malattia e a ridurne i sintomi, o addirittura a prevenirla.

TRATTAMENTO RIABILITATIVO
Durante l’intero decorso della malattia, al fine di limitarne le conseguenze e di rallentarne l’evoluzione, è possibile ricorrere ad interventi riabilitativi che consistono in un complesso di approcci che permettono di mantenere il più elevato livello di autonomia compatibile con la malattia.

Le manifestazioni cliniche delle demenze che possono essere oggetto di specifici interventi riabilitativi sono varie e riguardano i deficit cognitivi, ma anche i sintomi ansioso-depressivi, le alterazioni del ciclo sonno-veglia, le turbe dell’alimentazione, la disabilità nelle diverse attività della vita quotidiana.

Le metodiche non sono indicate indistintamente per ogni malato e in qualsiasi fase della malattia: i medici specialisti devono valutare quando la riabilitazione è indicata e quale metodica è più appropriata ad ogni singolo caso.

Fra le varie terapie non farmacologiche proposte, la Terapia di Riorientamento alla Realtà (ROT) è quella per la quale esistono maggiori evidenze di (moderata) efficacia. Questo approccio è finalizzato ad orientare il paziente confuso rispetto alla propria vita personale, all’ambiente ed allo spazio che lo circonda tramite continui stimoli di tipo verbale, visivo, scritto e musicale. La ROT si è dimostrata efficace in pazienti affetti da compromissione cognitiva lieve, nel rallentare l’evoluzione della malattia, rassicurando nel contempo il malato e mitigandone l’ansia. I suoi limiti consistono nella rapida caduta dell’efficacia al termine dell’intervento stesso (che quindi dovrebbe essere continuato) e nello scarso livello di autosufficienza, che consente di mantenere in sua assenza (è in sé fonte di dipendenza).

La ROT prevede un processo di stimolazione che implica la partecipazione di operatori sanitari e familiari, i quali, durante i loro contatti col malato gli forniscono ripetutamente, nell’arco delle 24 ore, informazioni essenziali circa l’orientamento temporale, spaziale, personale-relazionale. La continua ripetizione delle informazioni aiuta il malato a conservarle maggiormente nel tempo. Esiste anche un programma formale (ROT formale) che consiste in sedute giornaliere di gruppo (omogeneo per grado di deterioramento), durante le quali un operatore impiega una metodologia di stimolazione standardizzata.

Vi sono poi le terapie basate sulla stimolazione della memoria implicita, cioè procedurale, di tipo automatico, che presiede alle normali attività quotidiane. Si sono dimostrate utili nel migliorare i tempi di esecuzione di alcune attività della vita quotidiana, facilitandone lo svolgimento. Favorevoli ripercussioni sulla qualità di vita della persona e sulla sua interazione sociale possono essere raggiunte anche con l’impiego di ausili mnesici esterni (diari, segnaposto, orologi, suonerie che ricordano al malato l’assunzione di farmaci, appuntamenti, o altri fatti della sua vita quotidiana). Trovano sempre maggiore applicazione anche nell’ambito dell’invecchiamento fisiologico; nell’indebolimento cognitivo si utilizzano nello stadio più lieve dia malattia.

La Terapia di Validazione, invece, si basa su un rapporto empatico con il malato: la comunicazione con esso comporta che venga accettata la realtà nella quale vive ed i suoi sentimenti, anche se collocati lontano nel tempo/realtà e, per così dire, ingiustificati/irrazionali. Si applica al malato con decadimento moderato o grave le cui scarse risorse cognitive residue renderebbero vani i tentativi di riportare il paziente al presente. L’ipotesi che sostiene questa metodica è che la demenza riporti il malato ad episodi passati del suo vissuto e a conflitti relazionali, specie familiari e con figure significative. Si tratta di seguire il paziente nel suo mondo interiore per cercare di capire quali siano i suoi sentimenti, per rassicurarlo, mitigandone l’agitazione, l’aggressività, l’ansia.

Nell’ambito degli interventi psicoterapeutici, uno spazio a sé occupa la Terapia di Reminiscenza (rassegna di vita, rievocazione spontanea di momenti significativi), che si fonda sulla naturale tendenza (soprattutto da parte dell’anziano) a conservare piacevolmente memorie antiche, a partire dalle quali l’operatore può cercare di sviluppare (tramite l’ausilio di oggetti, fotografie, ascolto di canzoni) un processo deliberato di collegamento e un livello di maggiore consapevolezza. Si utilizza soprattutto nello stadio intermedio di progressione della malattia.

Un’altra tecnica riabilitativa è la Rimotivazione, il cui scopo consiste nella rivitalizzazione degli interessi per gli stimoli esterni, nello stimolare un interesse all’ambiente circostante, creando dei collegamenti tra il mondo oggettivo e la realtà soggettiva dei malati, stimolati a relazionarsi con gli altri in atmosfere festose, conviviali, ludiche. In tale metodica gioca un ruolo importante l’indagine approfondita degli aspetti caratteriali del soggetto e la sua storia personale: i suoi interessi, gli hobby, le abitudini.

Tra le metodiche più recenti vi è la Musicoterapia, un intervento a carattere preventivo e terapeutico-riabilitativo che utilizza l’espressione musicale per la stimolazione e lo sviluppo di varie funzioni (come ad es. la motricità ed il linguaggio) e per il raggiungimento di maggiore consapevolezza e benessere. Alla base dell’utilizzo di questa disciplina nell’indebolimento cognitivo vi la constatazione che le memorie che procurano intensa emozione si mantengano inalterate molto a lungo, nonostante gravi livelli di deterioramento. Procedimenti fondamentali di questa terapia sono quello cosiddetto ricettivo e quello cosiddetto attivo. Il primo consiste nell’ascolto di messaggi sonori, ritmici e musicali scelti dal terapeuta a seconda delle situazioni. Quello attivo consiste nel fare concretamente musica, utilizzando strumenti musicali (anche semplici), oggetti, parti del corpo, nell’ambito di training individuali o di gruppo. L’ascolto della musica favorisce il richiamo alla memoria di ricordi ed emozioni, facilitandone l’espressione verbale o creativa. Il canto, e la produzione musicale in genere, specie se a coppie o nell’ensemble del gruppo, offre la consapevolezza d’essere lì in quel momento e ridona il senso d’appartenenza alla comunità. La musica può inoltre favorire l’orientamento nel tempo e nello spazio; semplici movimenti al suono di musica possono essere mirati alla riacquisizione dello schema corporeo, alla stimolazione sensoriale, alla produzione di gesti e movimenti espressivi, ad una migliore tonicità psicofisica.

VIVERE CON LA DEMENZA
Il trattamento della demenza comprende, come si è visto, una serie di interventi, farmacologici e non farmacologici, rivolti al controllo dei deficit cognitivi, ma altresì alla cura dei sintomi non cognitivi; al miglioramento delle condizioni di vita del soggetto e della sua famiglia; all’informazione e al sostegno, per tutto il decorso della malattia; della rete affettiva di base che vi si trova coinvolta.
Parlare di una buona qualità di vita nella situazione di progressiva invalidità cognitiva che si prefigura potrebbe apparire utopico: eppure è possibile vivere la condizione demenza con dignità, conservando ambiti importanti di affettività e di gratificazione, essenzialmente grazie ad una buona assistenza da parte del caregiver. E’ necessario che quest’ultimo (attraverso una valida rete di sostegno) elabori ciò che sta accadendo; trovi in sé le risorse ed elabori le strategie per mantenere salutari atteggiamenti di protezione …e di autoprotezione.
Superata la fase della diagnosi, tranne che nei casi in cui la demenza sia reversibile (10-15%), inizia un percorso caratterizzato dall’evoluzione della demenza, costellato di problematiche differenti. Ogni storia è diversa dall’altra, nello sviluppo dei sintomi e della loro progressione, nella percezione soggettiva dei sintomi e nella loro gestione familiare. Per questo è fondamentale che la famiglia, che si trova e si troverà sempre più impegnata nell’assistenza, non sia sola ma mantenga rapporti proficui e costanti con il medico di fiducia e con una salda équipe di soggetti competenti.

In una prima fase (quando l’indebolimento cognitivo è lieve o moderato) è molto importante che i familiari conoscano i motivi dei sintomi, affinché i comportamenti del malato (anche strani, sgradevoli, penosi) possano essere compresi nel contesto della malattia, poiché questo è il presupposto essenziale per poter trovare le modalità più idonee per affrontarli. Molte difficoltà possono essere evitate, prevenute o mitigate considerevolmente. È necessario essere consapevoli che l’evoluzione della malattia impone ai familiari un costante adeguamento del proprio atteggiamento e delle proprie aspettative alle mutate condizioni del malato: un riorientamento non facile, che richiede coraggio ma anche sostegno esterno. È altrettanto importante sapere che, malgrado l’evoluzione progressiva della malattia, c’è sempre spazio per fare qualcosa, per operare delle scelte, affinché il malato viva in modo più sereno e relazionale una condizione che tende ad essere estraniante ed emarginante. Innanzitutto un obiettivo importante è il mantenimento più a lungo possibile del livello di autonomia, compatibilmente con l’avanzamento della malattia.

Specifici interventi riabilitativi, che agiscono favorevolmente per contrastare/mitigare i deficit cognitivi e motori, si dimostrano importanti anche per migliorare il tono dell’umore, le alterazioni del ciclo sonno-veglia (insonnia), le altre turbe comportamentali in grado minare l’equilibrio e la serenità familiare.
In questo senso possono rivelarsi particolarmente indicati gli interventi terapeutici che agiscono sulla motivazione e sulla relazionalità, utilizzando la musica ed altri stimoli espressivi gratificanti; nonché quei setting di gruppo che consentono la partecipazione del caregiver (e che direttamente o indirettamente possono suggerirgli comportamenti e stili esportabili nella quotidianità della vita familiare).
Nella vita quotidiana è bene apprendere/acquisire – attraverso l’informazione/formazione qualificata e il confronto – stili di comportamento adeguati. Se si vuole aiutare il malato è utile favorire un clima sereno e disteso, confortare e riassicurare spesso il paziente con il tono della voce e con il contatto fisico, stimolarlo/accompagnarlo in una moderata attività fisica, se possibile all’aria aperta, e a mantenere alcuni contatti amicali. E’ inoltre essenziale evitare di creare confusione intorno a lui con contesti troppo complessi (rumorosi, sgraditi); non lasciarlo alla televisione; parlargli lentamente, chiedergli una cosa alla volta, non cambiare improvvisamente l’argomento del discorso, non sostituirlo automaticamente quando non trova le parole, ma facilitare comunque la comunicazione dei contenuti, sostenendo affettivamente i tentativi mancati. E’ utile rispondere alle sue domande, anche se sono ripetitive: per il malato è sempre come se fosse la prima volta. Più utile ancora risulta comprendere che la ripetitività è quasi sempre espressione di ansia (un’energia che non riesce a fluire diversamente) e quindi tranquillizzare e provare a distrarre il malato, senza assumere una tonalità adirata o ironica che non sortirebbe un buon effetto.
E’ opportuno ignorare un eventuale linguaggio scurrile, o una falsa accusa, o un altro comportamento sgradevole, che è un’automatica reazione alla frustrazione che sente in quel momento. E’ utile capire che cosa ha creato irritazione o disagio per cercare di eliminare tale elemento, oppure intervenire con una distrazione. Avere a portata di mano un piccolo repertorio (la musica favorita, fogli e colori, una scatola di ritagli, un album di fotografie o di ricordi, della pasta da manipolazione tipo didò…) potrà tornare assai utile, così come proporre la preparazione di un dolce o un’altra attività che risulti gradita.
Piccoli giochi di ripetizione o di ricerca di parole possono rivelarsi un’ottima risorsa riattivante e socializzante (se ben accetti e commisurati alle capacità residue del malato), così come semplici giochi da tavolo o con le carte. E’ importante che le sollecitazioni siano offerte in un clima ludico e sereno, non competitivo o ansiogeno.
La messa a punto di interventi ambientali assume valenza terapeutica fondamentale nelle demenze. Il caregiving presuppone una sorveglianza vigile e attenzioni particolari, specie nella fase intermedia della malattia. L’ambiente può compensare o, al contrario, accentuare le conseguenze del deficit cognitivo, e pertanto condizionare il comportamento del paziente e il suo benessere. L’ambiente vitale può rappresentare per la persona affetta da demenza una risorsa terapeutica, purtroppo spesso sottovalutata, così come il motivo scatenante di alterazioni comportamentali apparentemente ingiustificate. Le scelte degli interventi sono condizionate dalle caratteristiche del paziente e, principalmente, dalla gravità della compromissione cognitiva e dalla natura dei disturbi comportamentali. E’ tuttavia possibile offrire indicazioni di massima.
La casa del malato dovrebbe essere un ambiente sicuro, tranquillo e rassicurante, che possibilmente offra ambienti dedicati (una camera, una poltrona comoda, suppellettili di valore affettivo: una nicchia privilegiata per il riposo, il ritiro, il rimuginare del malato…). Il caregiver avrà cura di mantenere stabile la collocazione dei mobili e degli oggetti, semplificando per quanto possibile gli accessi al bagno e alle altre stanze, assicurando una buona illuminazione, eliminando tutte le fonti di pericolo, facilitando gli spostamenti (eventualmente ricorrendo a segnaletiche o nastri per consentire l’orientamento del malato confuso, nei suoi tragitti dalla camera al bagno; cancelletti o analoghe previdenze per le scale). Potrà essere utile rimuovere/occultare tutti i soprammobili pesanti o preziosi o pericolosi, che possono cadere o andare perduti (come le chiavi): e ancora mascherare/eliminare o mettere in sicurezza oggetti potenzialmente fonte di fenomeni illusori (come specchi, superfici riflettenti, schermi televisivi).
Osservando attentamente il malato nei suoi comportamenti, che tendono ad essere abitudinari, potrà essere più facile individuare le fonti di pericolo ed eliminarle, scongiurando così cadute, fughe, incidenti domestici.

La fase più avanzata della demenza sopraggiunge, talvolta bruscamente, anche dopo molti anni (6 o più) caratterizzandosi per una grave perdita dell’autonomia funzionale: il malato è totalmente dipendente dai familiari che vivono anche la difficoltà di capire i bisogni che il malato non riesce più ad esprimere verbalmente. Questi spesso presenta un calo ponderale evidente, cammina con estrema difficoltà, poi non cammina più, né si mantiene eretto: vive quindi allettato; continuano i movimenti stereotipati delle mani (tipo sfregamento) o altri gesti involontari e afinalistici (il pugno serrato, la suzione).
I malati continuano a percepire la realtà che li circonda, anche se ad un livello più semplice e meno elaborato rispetto alla condizione di normalità. I suoni, il tono della voce, le variazioni della luce e dei colori, il movimento di oggetti, il caldo ed il freddo, gli stimoli tattili, il dolore rappresentano una residua, importante, modalità di relazione con l’ambiente.
In questa fase, l’onere assistenziale cambia: si fa più fisicamente faticoso, ma anche spesso meno lacerante dal punto di vista psicologico; aumenta la necessità di ricorrere ad assistenti specializzati (infermiere, fisioterapista, medici specialisti) e ad ausili tecnici (letto articolato, materasso antidecubito, sollevatore, ecc.).
L’obiettivo può considerarsi quello di consentire il mantenimento del malato presso la sua casa, ove (o finché) questo sia possibile.
Il malato va lavato; alimentato (perché sente meno la fame e la sete, può facilmente soffrire di carenze) con il cucchiaino o il biberon, oppure tramite sondino naso-gastrico o mediante PEG; va girato nel letto per prevenire le piaghe da decubito; va seduto in carrozzina; vanno mobilizzati gli arti per evitare che essi si atteggino in posizioni anomale; diventa completamente incontinente (prima a livello urinario, poi anche fecale) e possono rendersi necessari interventi frequenti per favorire lo svuotamento dell’intestino (ad es. clisteri).
Il malato perde, come si è detto, la capacità di comunicare verbalmente (ripete in modo continuativo un suono, una parola, o un lamento), ma conserva la comunicazione non verbale, cioè quella che passa attraverso la mimica (il sorriso, l’espressione del volto) e la gestualità (la carezza, prendere la mano, il pianto, ecc.). Chi assiste trasmette le proprie emozioni al malato attraverso il canale non verbale, ed in questo caso si può intuire quanto sia importante un uso consapevole della propria espressività per rassicurare e dare gioia al malato.
Bruschi e repentini gesti di opposizione, di aggressività, o stati di agitazione indicano un bisogno non diversamente esprimibile e vanno interpretati come un disagio (sete, fame, bisogno del bagno, di cambiare posizione, caldo o freddo …), oppure come un dolore fisico o emotivo. Il familiare attento diviene un abile interprete di queste modalità di comunicazione non verbale.
La stimolazione tattile (massaggi di sfioramento, frizioni delicate con oli appositi), tenere la mano, cullare il malato, cantare possono costituire forme affettive di cura molto gradite, proseguibili sino alle fasi più avanzate della malattia. Soprattutto per i soggetti gravemente compromessi nella vista, rimangono l’unica modalità di relazione, attraverso cui chi assiste può donare un po’ di benessere al malato, comunicare e ricevere da lui amore.
E’ dimostrato che un programma di educazione – che informa nel tempo, che offre consiglio nelle necessità, che sostiene il fardello del caregiver – consente di migliorare la qualità della vita del malato e l’equilibrio del caregiver e della sua famiglia, ritardando/evitando l’istituzionalizzazione della persona con demenza.
La salute psicofisica del caregiver è il presupposto necessario per un buon lavoro di cura.

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