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ECCITAZIONE: cambiamento di stato elettrico di un neurone associato a un’aumentata probabilità di potenziali d’azione.

ELETTROMIOGRAFIA (EMG): tecnica diagnostica impiegata per registrare l’attività elettrica legata alla contrazione muscolare e studiare le variazioni qualitative e quantitative dei potenziali d’azione sia del muscolo, sia delle singole fibre muscolari. Si effettua la registrazione mediante elettrodi (di superficie o ad ago), applicati in corrispondenza del muscolo da esaminare, o mediante speciali microelettrodi, che registrano direttamente dall’interno di singole fibre muscolari. E’ la tecnica diagnostica fondamentale per rilevare malattie neuromuscolari.

EMICRANIA: cefalea primitiva (cioè non legata ad altre cause morbose), dovuta a una reazione vasomotoria delle arterie del capo. Caratteristica comune delle sindromi emicraniche è la comparsa di un dolore, di solito unilaterale, nelle regioni della tempia, della fronte o delle orbite, spesso pulsante, aumentato dagli sforzi e dai movimenti bruschi del capo, e attenuato dalla compressione delle carotidi o dei vasi temporali. Insorge ad attacchi intermittenti, tra i quali il soggetto non avverte alcuna sofferenza. L’emicrania è in genere ereditaria e colpisce prevalentemente il sesso femminile. La causa è riconducibile a una crisi vascolare, caratterizzata da una fase preliminare (aura) di vasocostrizione dei rami della carotide interna e ischemia della corteccia cerebrale, con conseguenti disturbi visivi, sensitivi e psichici. La seconda fase comporta invece la vasodilatazione e la distensione delle arterie epicraniche (rami della carotide esterna), distensione che irrita le terminazioni nervose e causa il dolore acuto pulsante, in genere accompagnato da nausea, vertigini e disturbi digestivi. Nella terza fase la vasodilatazione porta alla trasudazione del plasma dai vasi e all’edema, causando un dolore sordo e continuo. L’emicrania classica o oftalmica, che inizia nell’adolescenza e tende a ridursi con gli anni, è preceduta in genere da aure visive e, meno frequentemente, da afasia motoria, atassia, disartria, vertigini, alterazioni della coscienza; il dolore, fronto-temporale o parieto-occipitale, è accompagnato da nausea, vomito e fotofobia. L’emicrania comune inizia nell’adolescenza, ma tende a peggiorare con gli anni: il dolore inizia al mattino, diventa in genere bilaterale e diffuso, e può essere accompagnato da nausea, vomito, pallore o arrossamento del viso, lacrimazione, fotofobia. Non sono presenti veri e propri disturbi visivi. L’emicrania oftalmoplegica, caratterizzata da dolore retro – o sopraorbitale e paralisi dei tre nervi oculomotori, insorge durante o dopo l’attacco emicranico. Nell’emicrania emiplegica l’accesso emicranico è seguito da un deficit motorio a esordio e risoluzione lenti. La cefalea a grappolo, infine, non ereditaria, colpisce soprattutto il sesso maschile nella maturità: il dolore è violento e bruciante, prevalente alla regione orbitaria o del mascellare superiore (per questo va ben distinta dalla nevralgia del trigemino), accompagnato da lacrimazione, fotofobia, congestione nasale, rinorrea. Gli attacchi insorgono durante il sonno, e si ripetono in successione rapida; possono esservi lunghi periodi liberi. Nella diagnosi di emicrania sono utilizzate una serie di prove farmacologiche atte a indurre uno specifico tipo di cefalea (test di induzione all’istamina, alla trinitrina), o a estinguere una cefalea già in atto (test di estinzione all’ergotamina, all’indometacina). La prognosi è variabile, ma non è raro osservare una diminuzione della frequenza degli attacchi nella seconda metà della vita. Per quanto riguarda la terapia, quando è possibile, si elimina la causa scatenante (particolari cibi e dismenorrea). Il trattamento della crisi dolorosa si avvale poi essenzialmente di analgesici (acido acetilsalicilico, paracetamolo, indometacina e molti altri) e di vasocostrittori, come i derivati dell’ergotamina e il sumatriptan, che vanno somministrati all’inizio della crisi (dati i loro effetti, questi ultimi sono controindicati nei cardiopatici e in gravidanza). Per prevenire le crisi ci si avvale di farmaci come la metisergide, il pizotifene, i calcioantagonisti, i betabloccanti, i sali di litio, gli antidepressivi triciclici ecc.. Può essere utile la psicoterapia.

EMISFERI CEREBRALI: sono le due metà del cervello, ciascuna con funzioni specifiche. L’emisfero sinistro presiede alla parola, alla scrittura, al linguaggio e al calcolo; l’emisfero destro all’abilità spaziale, al riconoscimento dei volti e ad alcuni aspetti della percezione e della produzione musicale.

EMOGASANALISI: analisi della concentrazione dei gas disciolti nel sangue. L’emogasanalisi registra la pressione parziale di ossigeno e anidride carbonica, la saturazione di ossigeno, la concentrazione di monossido di carbonio, l’equilibrio acido-base. Fornisce inoltre informazioni fondamentali in caso di malattie respiratorie.

EMORRAGIA CEREBRALE: emorragia causata dalla rottura di vasi che irrorano il cervello. Nel giovane è perlopiù dovuta alla rottura di malformazioni vascolari; nell’adulto e nell’anziano è in genere conseguenza dell’ipertensione. Le circostanze scatenanti sono rappresentate da crisi ipertensive in occasione di pasti copiosi, emozioni, sforzi fisici, esposizioni prolungate al sole. Si distinguono diversi tipi di emorragìa cerebrale. La grande emorragia capsulare (a livello della capsula interna) – o, meglio, capsulo-lenticolare, perché è nella zona lenticolare che ha inizio, originando dalle arterie perforanti di derivazione silviana – è detta anche tipica (60%), ed è solitamente legata all’ipertensione arteriosa. Essa ha insorgenza acuta – perché il sangue fuoriesce ad alta pressione, infiltrando e distruggendo il tessuto cerebrale circostante, con la possibilità di raggiungere anche il talamo o di inondare i ventricoli cerebrali ed espandersi rapidamente ad altri distretti cerebrali – con alterazione della coscienza (coma), imponenti fenomeni neurovegetativi e turbe neurologiche (deviazione coniugata del capo e degli occhi, maggior ipotonia da un lato, crisi di ipertonia generalizzata). Nei due terzi dei casi l’evoluzione è infausta, nel giro di poche ore o di pochi giorni; in un terzo dei soggetti – quelli che hanno subito un evento relativamente limitato – si ha una stabilizzazione e anche un miglioramento delle turbe della coscienza e delle alterazioni neurovegetative, mentre si evidenzia più chiaramente l’emiplegia. I postumi sono comunque gravi: emiplegia o emiparesi, afasia, decadimento psichico. Un’altra forma di emorragìa cerebrale è l’ematoma cerebrale spontaneo, dovuto di solito alla rottura di un aneurisma dell’arteria cerebrale media o di una malformazione artero-venosa: il sanguinamento, che respinge il tessuto cerebrale piuttosto che distruggerlo, si manifesta con coma progressivo, associato a emiparesi, seguito da una fase di regressione parziale e, dopo una o due settimane, da un inesorabile aggravamento con coma profondo (sviluppo in due tempi). Si hanno inoltre: emorragie cerebro-meningee o meningo-cerebrali, con inizio rispettivamente dal parenchima cerebrale e dallo spazio meningeo; Più rare sono infine le emorragie sottotentoriali (così vengono definiti i sanguinamenti localizzati in sedi cerebrali poste al di sotto del tentorio del cervelletto, cioè nel cervelletto stesso o nel tronco encefalico). Accanto a questi grandi accidenti emorragici, tuttavia, l’ipertensione arteriosa provoca frequentemente microemorragie multiple, per lo più asintomatiche (slith emorrages), che sono tuttavia chiaramente riconoscibili all’esame autoptico dei pazienti ipertesi. Nei casi di emorragìa cerebrale si impone il ricovero d’urgenza presso un centro specializzato per eseguire TAC, rachicentesi, angiografia cerebrale, allo scopo di accertarne l’origine, distinguendola dall’infarto, e di orientarne la terapia. Il trattamento specifico si avvale di soluzioni ipertoniche di glicerolo o mannitolo contro l’edema cerebrale, di farmaci coagulanti e di provvedimenti rianimativi generali; vanno inoltre assicurate adeguata idratazione parenterale, equilibrio elettrolitico, prevenzione delle lesioni da decubito, svuotamento vescicale asettico, mantenimento della pervietà delle vie aeree superiori, prevenzione delle infezioni. La terapia chirurgica pone ancora oggi difficili problemi di indicazione. Gli studi dimostrerebbero la sua efficacia in caso di ematomi cerebellari che comprimono il tronco encefalico, in caso di ematoma intracerebrale o di emorragia subaracnoidea.
Emorragia sub aracnoidea: versamento emorragico tra i due foglietti (pia madre e aracnoide) della leptomeninge. Le cause sono varie: processi sistemici di tipo vascolare (ipertensione maligna, arteriosclerosi), tossico, dismetabolico, infettivo; traumi cranici, spesso con perdita di coscienza prolungata; anomalie dei vasi cerebrali, come angiomi, aneurismi congeniti o acquisiti, malformazioni artero-venose; tumori endocranici molto vascolarizzati. Le cause più frequenti sono le rotture di aneurismi. In un terzo dei casi, l’evento scatenante può essere ricondotto a uno sforzo fisico, alla tosse, a un rapporto sessuale, alla defecazione od anche alla esposizione prolungata al sole. In altri casi il sanguinamento è del tutto spontaneo, senza prodromi significativi. L’emorragia subaracnoidea può essere pura, oppure accompagnarsi a lesioni cerebrali: in questo caso si parla di forma meningo-cerebrale, se la lesione cerebrale è secondaria, e di forma cerebro-meningea, se è primitiva l’emorragia cerebrale. La sintomatologia è in ogni caso acuta e drammatica: cefalea molto intensa, dolore alla nuca e tra le scapole (“colpo di pugnale rachideo”), vertigine, vomito, fotofobia, segni di sofferenza meningea (in particolare rigidità nucale) e molto rapidamente obnubilamento che raramente arriva al coma. Il malato geme, si agita e porta le mani alla testa. Possono comparire in seguito febbre, da riassorbimento dell’emorragia, torpore o agitazione, talora paralisi del III o VI nervo cranico, emiparesi con o senza afasia e alterazioni del fondo oculare (all’esame del fondo dell’occhio si possono dimostrare congestione della papilla, eventuali emorragie pericapillari e talora edema papillare). La puntura lombare oggigiorno non è più praticata sistematicamente, in quanto la diagnosi viene rapidamente confermata, nella maggioranza dei casi, dalla tomodensitometria (TC), che mostra lo spandimento ematico come una iperdensità degli spazi leptomeningei. Tuttavia, la puntura lombare rimane indispensabile per la diagnosi di quel 20% di casi in cui la TAC è normale, in quanto dimostra la presenza di sangue nel liquor. L’angiografia cerebrale è indispensabile per riconoscere la causa dell’emorragia e per impostarne la cura. Va tuttavia ricordato che l’aneurisma, subito dopo la rottura, può – in una minoranza di casi – non essere visibile, per trombosi del sacco aneurismatico o per spasmo arterioso. La morte è frequente, soprattutto quella immediata (fino al 36% nelle prime 76 ore). Il rischio di recidiva dell’emorragia (più grave, addirittura, del primo sanguinamento), qualora venga superata la fase iniziale, è elevato ma tende a decrescere lentamente nel corso delle settimane. A un anno di distanza è tuttavia ancora stimabile intorno all’11%. La prognosi è migliore se lo spandimento emorragico è modesto, senza grave compromissione del tessuto nervoso. L’unico trattamento possibile è neurochirurgico, ma presenta notevoli difficoltà.

ENCEFALOPATIA IPERTENSIVA: complicazione grave dell’ipertensione arteriosa, che determina una dilatazione dei vasi cerebrali con aumento della pressione intracranica. Può rappresentare una complicanza della gravidanza, dell’insufficienza renale, del feocromocitoma e dell’ipertensione primitiva (in particolar modo dell’ipertensione maligna). Si manifesta come un episodio acuto, che determina un grave e improvviso aumento dei valori di pressione sistolica e diastolica, con cefalea, obnubilamento della coscienza, convulsioni fino al coma. Si associano a questo quadro sintomatologico alterazioni della retina ( fino al papilledema) e un alto grado di insufficienza renale. Spesso ha esito letale. Non c’è accordo tra gli studiosi riguardo al fatto che il pronto abbassamento della pressione arteriosa sia effettivamente in grado di migliorare la prognosi.

ENDOCRINO, ORGANO: organo che immette nella corrente sanguigna ormoni destinati a regolare l’attività cellulare di altri organi.

ENDORFINE: neurotrasmettitori prodotti dal cervello, che danno effetti cellulari e comportamentali simili a quelli indotti dalla morfina.

EPIDEMIOLOGIA: branca della medicina che studia la frequenza e la distribuzione delle malattie nella popolazione in relazione ai fattori di rischio e al loro modo di presentarsi nella collettività (a differenza della medicina clinica che si interessa della malattia in relazione a un singolo soggetto malato).

EPIFISI: ghiandola endocrina localizzata nel cervello. In alcuni animali pare funga da orologio biologico, regolando la risposta all’alternanza di luce e buio. È chiamata anche ghiandola pineale.

EPILESSIA: sindrome neurologica caratterizzata da alterazione dell’attività biolettrica del cervello, che si manifesta con “crisi” di aspetto clinico diverso – sensitive, psichiche, neurovegetative, motorie – e insorgenza improvvisa, con spiccata tendenza a ripetersi (una sola crisi, quindi, non significa automaticamente epilessia). Tali crisi dipendono da una improvvisa e incontrollata iperattività elettrica delle cellule cerebrali, dalla quale origina una “scarica” elettrica. La scarica può restare confinata a un gruppo di cellule del cervello, oppure interessare inizialmente solo un gruppo e successivamente diffondere all’insieme delle altre cellule, oppure interessare fin dall’inizio e nello stesso tempo tutte le cellule del cervello. Nel primo caso (crisi focale o parziale) le manifestazioni cliniche sono diverse a seconda della zona cerebrale interessata dalla scarica abnorme (irrigidimento, scosse, allucinazioni, amaurosi transitoria, sensazioni di gusto e odori strani ecc.). Nel secondo caso, vi sono inizialmente manifestazioni come quelle ora descritte, cui seguono manifestazioni generali motorie e perdita di coscienza (crisi parziale secondariamente generalizzata). Nel terzo caso, infine, si ha fin dal principio una sintomatologia generalizzata con manifestazioni motorie e completa perdita di coscienza (crisi tonico-clonica o convulsiva o crisi di Grande male), o senza manifestazioni motorie e con compromissione della coscienza (assenze, Piccolo male), o – ancora – con scosse localizzate prevalentemente agli arti superiori senza compromissione della coscienza (Piccolo male mioclonico). Al termine della crisi (se questa è durata meno di 30 minuti – 1 ora) le cellule riprendono il loro normale funzionamento e non residua alcun deficit. Va ricordato che in più occasioni possono verificarsi crisi cosiddette “occasionali” a seguito di danni cerebrali acuti tossici, dismetabolici, ipertensivi, traumatici, infettivi o vascolari che possono ripetersi anche a distanza ravvicinata di tempo: in questi casi – possibili sia nell’infanzia che nell’età adulta – non si può tuttavia parlare propriamente di epilessia, ma solo di crisi epilettiformi.
Le cause dell’epilessia
Le crisi epilettiche possono conseguire a una predisposizione genetica o a una lesione cerebrale. Le prime esordiscono spesso nell’infanzia, sono l’unico sintomo presente e tendono alla guarigione prima o nell’età adulta. Le seconde possono essere ascritte a una sofferenza cerebrale avvenuta prima, durante o dopo la nascita (malformazioni, “cicatrici”, tumori cerebrali ecc.) e possono essere accompagnate da altri sintomi neurologici; la tendenza alla guarigione spontanea è funzione del danno cerebrale. Per quanto riguarda l’epilessìa cosiddetta temporale, molto frequente, oltre alla particolare vulnerabilità delle strutture temporo-rinencefaliche, bisogna considerare che anche durante il parto normale la compressione della testa del feto provoca ischemia a livello dell’ippocampo. Pure nei traumi cranici importanti è frequente la compromissione di questa zona. Al di là di queste cause, occorre in ogni caso una predisposizione all’abbassamento periodico della soglia convulsiva. Per quanto riguarda il problema dell’ereditarietà, solo per le famiglie in cui vi sono membri con epilessìa essenziale si può parlare di un lieve aumento del rischio di epilessia. Le epilessìe essenziali (Piccolo male puro, Piccolo male mioclonico, Grande male) hanno verosimilmente la stessa sede di scarica iniziale, cioè la formazione reticolare, il cosiddetto centrencefalo, che proietta in modo diffuso simmetrico sulla corteccia cerebrale. L’epilessìa parziale è sempre causata da una lesione (la cicatrice o il tumore sono elettricamente inattivi, mentre la ipereccitabilità è propria dei neuroni adiacenti). Esistono, poi, fattori che favoriscono l’insorgenza delle crisi epilettiche: l’abuso di bevande alcoliche, l’irregolarità del ritmo sonno-veglia, le intense stimolazioni sensoriali o quelle a ricco contenuto emozionale, stress emotivi, l’interruzione della terapia antiepilettica e via discorrendo.
Tipi e sindromi dell’epilessia
Per le crisi grande male, vedi grande male. Per le crisi piccolo male, vedi assenza. Queste ultime sono oggi comprese nella epilessìa generalizzata primaria, con predisposizione ereditaria, assenza di lesioni anatomiche dimostrabili, centrencefalica, con prognosi buona. A essa si contrappone l’epilessìa generalizzata secondaria, caratterizzata da crisi generalizzate dall’inizio, ma dovute a una cerebropatia con lesione anatomica (la sindrome di West, gravissima forma che colpisce nei primi mesi di vita, con il caratteristico spasmo in flessione, per curare la quale è molto importante la diagnosi precoce; la sindrome di Lennox-Gastaut; le epilessìemiocloniche progressive familiari; la dissinergia cerebellare progressiva o mioclonica di Hunt, con turbe cerebellari e crisi epilettiche di tipo mioclonico). Gli attacchi tonici del neonato sono caratterizzati da irrigidimento generalizzato e, pur essendo inclusi tra le epilessìe generalizzate primarie, sono dovuti a una lesione di natura emorragica, anossica o malformativa. Tra le crisi parziali si annoverano: le crisisomatomotoriejacksoniane, che si distinguono per la mancanza di perdita di coscienza; le crisi visive; le crisi di afasia motoria o sensoriale; le crisi toniche avversative, con deviazione coniugata degli occhi, della testa e del tronco, in genere verso il lato opposto all’emisfero sede della scarica; le crisi parziali complesse, o crisi del lobo temporale, le più frequenti crisi epilettiche in assoluto, dipendenti da lesioni delle strutture temporo-rinencefaliche profonde. Tipiche sono le pseudoassenze temporali, con breve arresto della coscienza, durante le quali il soggetto esegue atti automatici semplici, per esempio, il succhiare-masticare-deglutire (pantomima alimentare). Altre volte si tratta di allucinazioni visive complesse o di sensazioni spiacevoli, gastriche o intestinali (crisi viscerali), oppure di sensazioni affettive (crisi affettive); in altre ancora il soggetto si mette a camminare o a correre senza meta (fuga epilettica). Speciale crisi temporale è la crisi olfatto-gustativa. L’epilessìa temporale può evolvere verso un quadro demenziale e può essere caratterizzata da episodi psicotici. La diagnosi può essere raggiunta con una accurata anamnesi familiare e fisiologica, la valutazione scrupolosa della manifestazione clinica e con l’ausilio di alcuni esami strumentali: elettroencefalogramma (EEG) basale e dopo stimolazioni particolari (luminosa, privazione di sonno ecc.), EEG dinamico, video-EEG, tomografia assiale computerizzata (TC), risonanza magnetica nucleare (RMN). La terapia Scopo della terapia è quello di evitare le crisi o ridurne la frequenza, con l’uso di farmaci che diminuiscono l’ipereccitabilità delle cellule cerebrali. La dose efficace è variabilissima e deve essere ricercata per i singoli pazienti, sorvegliando gli eventuali effetti collaterali. La terapia richiede un lungo periodo di tempo (almeno 5 anni) e talora ottiene la guarigione, consentendo l’interruzione graduale della terapia: l’assunzione dei farmaci – infatti – non va mai sospesa bruscamente, né va effettuata al di fuori dello stretto controllo medico (solo dopo due o tre anni senza crisi, con regolarizzazione del tracciato elettroencefalografico, si può incominciare a diminuire lentamente i farmaci). Alcune forme di epilessia non guariscono e il loro trattamento va, in questi casi, proseguito per tutta la vita. Nell’ambito della terapia, i farmaci più importanti sono i barbiturici, gli idantoinici, la carbamazepina, l’acido valproico e le benzodiazepine (diazepam e clonazepam): per la loro trattazione si rimanda alle singole voci. Un cenno particolare merita l’epilessia in gravidanza. Il decorso di questa non viene sostanzialmente modificato dall’epilessia: non si registra, infatti, né un aumento di aborti spontanei, né di parti prematuri, né di complicazioni quali diabete ed eclampsia; inoltre, gli studi più recenti hanno confermato che la frequenza delle crisi rimane invariata in circa il 70-80% dei casi. La problematica maggiore si pone riguardo al rischio teratogeno dei farmaci antiepilettici: a tale proposito, è opportuno che le pazienti affette da epilessia si affidino a un centro specialistico per i provvedimenti del caso. Le puerpere in terapia con farmaci antiepilettici possono in linea di massima allattare i loro neonati; cautela va usata in caso di terapia con alte dosi di barbiturici, perché in questo caso possono verificarsi problemi quali eccessiva sonnolenza del neonato e ridotta suzione, reversibili con la sospensione dell’allattamento al seno. La terapia chirurgica, con asportazione del focolaio epilettogeno, è indicata solo per gravi e frequenti crisi parziali, resistenti a ogni terapia medica, ma può eliminare le crisi convulsive per un lungo periodo. Molto dipende dalla durata dell’epilessia prima dell’intervento: più precoce,emt si inteviene, maggiore sono le possibilità di guarigione. Dati recenti confermano che oltre il 60% dei soggetti trattati non è più andato incontro a recidive.

ERNIA DEL DISCO: patologia del disco intervertebrale che consiste nella fuoriuscita del nucleo polposo (parte centrale del disco intervertebrale) attraverso le fibre dell’anulusfibrosus (parte periferica dello stesso). Generalmente l’ernia del disco interessa un disco che si presenta alterato: dopo i 40-50 anni, tutti i dischi della colonna vertebrale, ma soprattutto quelli del tratto cervicale (superiore) e lombosacrale (inferiore), che sono esposti a maggior movimento e pressione, vanno incontro a fenomeni regressivi quali la perdita di elasticità delle fibre dell’anulus. In alcuni soggetti questi fenomeni sono più accentuati, anche a causa dell’usura e dei fattori microtraumatici derivanti da alcune professioni. L’ernia del disco allora si può manifestare anche in seguito a uno sforzo banale, come alzarsi da una poltrona, sollevare una valigia, e simili. L’alterazione colpisce soprattutto i dischi del tratto lombare e in particolare l’ultima vertebra lombare e la prima sacrale. La protrusione discale è la prima fase della malattia discale vera e propria: il paziente avverte un dolore acuto, che si accentua alla pressione sulla colonna vertebrale nel punto corrispondente. Al dolore possono associarsi vari gradi di impedimento a compiere movimenti del tronco. A causa del dolore e della contrattura muscolare (lombalgia), il soggetto assume una postura caratteristica, curvo in avanti e inclinato su un lato. Spesso si associano sintomi di tipo neurologico: la protrusione, infatti, avviene di solito molto vicino al punto in cui la radice dei nervi spinali si connette col midollo spinale. La compressione di queste radici provoca l’irradiazione del dolore lungo gli arti (con localizzazione diversa in relazione alla radice interessata), disturbi della sensibilità cutanea (formicolii, diminuzione o scomparsa della sensibilità), alterazione dei riflessi osteotendinei, disturbi nel movimento degli arti inferiori e possibili disturbi vegetativi (per esempio a danno degli sfinteri, soprattutto se la sede della protrusione è molto bassa). Se si interviene in questa fase, è possibile che l’anello fibroso difettoso recuperi la sua elasticità intrinseca, per lo meno negli individui più giovani. Se l’insulto prosegue nel tempo, invece, si può andare incontro a due evenienze principali: l’espulsione dell’ernia (l’anello fibroso si fissura e il nucleo polposo fuoriesce) o la discopatia degenerativa (degenerazione dell’anello fibroso e del nucleo polposo, che sporgono persistentemente nel canale vertebrale determinandone la stenosi). La diagnosi si basa sui sintomi e sull’esame radiografico. Quando la radiografia non risulta dirimente, può essere necessario approfondire lo studio del quadro clinico con altre indagini: elettromiografia, tomografia assiale computerizzata (TAC), risonanza magnetica nucleare (RMN). La terapia è medica (farmaci antinfiammatori e antidolorifici), nella fase iniziale e acuta. Se i sintomi indicativi di un deficit dei nervi persistono può essere indicato l’intervento chirurgico di asportazione del disco erniato (secondo varie tecniche). In alternativa, e in casi limitati, si può sciogliere il nucleo erniato iniettando al suo interno particolari enzimi.

EZIOLOGIA: studio delle cause di una patologia.

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